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COS' È L'ENDOMETRIOSI?
L’endometriosi è una patologia ginecologica benigna in cui il tessuto endometriale normalmente confinato all’interno dell’utero si impianta all’esterno di quest’organo. Esso si localizza prevalentemente a livello degli organi pelvici ma in letteratura scientifica sono riportate localizzazioni praticamente di tutti gli organi corporei (intestino, apparato urinario, pleura, polmone, ombelico, retti dell’addome, omento, fegato, pancreas, siti di incisioni chirurgiche, nervo sciatico).
Come questo vero e proprio processo metastatico possa aver luogo ad oggi non è chiaro poiché le teorie disponibili non sono in grado di spiegare compiutamente ed organicamente ogni tipo di localizzazione. Considerando che i tessuti del corpo umano hanno una disposizione impostata geneticamente e che la loro corretta localizzazione è continuamente controllata dal sistema immunitario, la possibilità di attecchimento e sopravvivenza del tessuto endometriosico nelle pazienti affette da questa patologia è verosimilmente correlata a predisposizione genetica o “permissività” immunitaria o, in proporzioni variabili, ad entrambi i fattori.
L’apparente più elevata diffusione della malattia nei paesi sviluppati rispetto a quelli meno sviluppati è da alcuni associata ad un miglior accesso a mezzi diagnostici efficaci ma l’approfondimento del ruolo biologico dei cosiddetti disruptor endocrini nello sviluppo di alcune patologie sta aprendo nuove prospettive di ricerca. I disruptor endocrini sono sostanze chimiche utilizzate nell’industria, alimentare (coloranti, conservanti) e non (vernici, diluenti, smaltanti) ed inquinanti (diossine) che, assorbiti dall’organismo, si comportano come ormoni, prevalentemente con azione simil-estrogenica. Considerando il ruolo fondamentale degli estrogeni nello sviluppo e nella sopravvivenza del tessuto endometriale queste sostanze potrebbero svolgere un ruolo importante nello sviluppo e diffusione della patologia.
Se valutato da un punto di vista istologico o genetico il tessuto endometriosico è sostanzialmente indistinguibile dal tessuto endometriale normale e come questo si comporta. Il tessuto endometriale è preposto, quando è localizzato nell’utero cioè nella sua sede anatomica propria, a consentire l’attecchimento dell’embrione e lo sviluppo della gravidanza. Per poter assolvere a questo compito il tessuto endometriale deve riprodursi e modificarsi sullo stimolo della produzione ormonale ovarica, ovvero risponde alla produzione degli ormoni estrogeni, moltiplicandosi nella prima parte del ciclo ovarico, ed alla produzione degli ormoni progestinici, maturando nella seconda parte del ciclo ovarico, per assolvere alla sua funzione di attecchimento e sviluppo embrionale. Se la gravidanza non ha luogo o si interrompe, la brusca caduta dei livelli ematici di progesterone ne induce lo sfaldamento e l’espulsione sotto forma di flusso mestruale.
Questo processo ordinato avviene correttamente nell’organo a questo preposto poiché anatomicamente le strutture ne consentono l’espulsione all’esterno del corpo femminile. Nei casi in cui questo processo avvenga sulla superficie di organi da cui il flusso non possa essere espulso all’esterno, questo materiale stimola la reazione infiammatoria e l’instaurarsi di un processo infiammatorio e cicatriziale cronico doloroso e destruente.
COSA PROVOCA L'ENDOMETRIOSI?
Nella sua forma più frequente l’endometriosi si manifesta sotto forma di raccolte ovariche di flusso mestruale circondate da un tessuto fibroso, frutto del tentativo dell’organismo di confinare in qualche modo il fenomeno, che vengono denominate cisti endometriosiche. Nel caso delle localizzazioni non ovariche il tessuto endometriosico si manifesta quasi esclusivamente sotto forma di tessuto cicatriziale misto a tessuto endometriale attivo e viene variamente definito come nodulo o placca endometriosica.
La sintomatologia legata a questa patologia può essere prevalentemente dolorosa o prevalentemente funzionale, non esiste una correlazione diretta tra la gravità della sintomatologia e l’estensione della malattia. Spesso si manifesta con il dolore associato al flusso (dismenorrea), ma in base alla localizzazione può provocare dolore durante i rapporti sessuali (dispareunia) dolori pelvici, ma è anche associata a stanchezza cronica e sindromi depressive o ansiose o ad entrambe. Una conseguenza dell’evolversi della malattia è spesso l’infertilità legata da un lato al sovvertimento anatomico che la reazione cicatriziale ed aderenziale da essa generata provoca sugli organi riproduttivi e dall’altro provocando l’esposizione delle cellule germinali femminili e dell’embrione nei primi stadi di sviluppo a sostanze infiammatorie tossiche. Se mediamente l’endometriosi è presente nel 10% della popolazione in età riproduttiva essa è diagnosticata in circa il 30% delle pazienti infertili.
COLPOSCOPIA e LASERCHIRURGIA
PREVENZIONE E CURA DELLE PATOLOGIE DISPLASTICHE DELL’APPARATO GENITALE INFERIORE
Nella diagnosi dell’endometriosi il ruolo principale è giocato dall’esperienza del medico poiché già una corretta anamnesi ed una accurata valutazione clinica possono quantomeno far sospettare la presenza della patologia. Purtroppo la scarsa esperienza e la poca conoscenza della malattia stessa porta spesso a non diagnosticarla o a diagnosticarla in estremo ritardo (tempo medio intercorso tra la comparsa dei sintomi ed una diagnosi definitiva 9,29 anni) con conseguenti numerosi accessi presso le strutture ospedaliere e/o valutazioni specialistiche.
Un ruolo certamente importante se non fondamentale nella diagnosi della presenza e, soprattutto, dell’estensione della malattia è sicuramente giocato dall’ecografia transvaginale che raggiunge una accuratezza ed una sensibilità elevatissime (vicine al 100%) ma questa è purtroppo una metodica diagnostica fortemente operatore-dipendente e richiede, per il raggiungimento di tali risultati, un lungo percorso formativo. Un ruolo marginale è giocato dalla RMN, utile nello studio delle lesioni distanti dalla pelvi, limitato dal costo e dalla scarsa sensibilità/specificità. Ancor meno affidabili appaiono allo stato i marcatori biologici ematici (Ca-125), utili nella sola diagnosi differenziale con le patologie neoplastiche e, ancor più limitatamente, nel follow up. La diagnosi istologica è necessaria nei casi dubbi per escludere patologie maligne o border-line che possono essere associate ad endometriosi e, in alcune popolazioni, più frequenti tra le pazienti affette da endometriosi che nella popolazione generale.
TERAPIA DELL’ENDOMETRIOSI
Le terapie mediche attualmente disponibili sono mirate a gestire la sintomatologia dolorosa o a creare un ambiente ormonale sfavorevole allo sviluppo e/o progressione della malattia ma non sono in grado di indurre, ad oggi, una completa scomparsa della patologia.
I farmaci sintomatici che sono quelli che sono solitamente usati in autoprescrizione dalla paziente o sono somministrati in prima istanza durante l’iter diagnostico, possono essere antidolorifici (paracetamolo, tramadolo) o antinfiammatori (FANS). Non avendo un ruolo curativo ma solo sintomatico e non essendo in grado di arrestare in alcun modo la progressione della patologia possono essere efficaci solo in parte o per un limitato periodo di utilizzo. Se si tiene conto degli affetti avversi (elevata gastrolesività dei FANS) e della necessità di un utilizzo cronico hanno un ruolo marginale nella terapia della patologia e solo nel controllo della sintomatologia quando la terapia ormonale sia controindicata o in attesa di terapia chirurgica (ESHRE 2013).
La terapia ormonale si basa sull’utilizzo di due famiglie di ormoni, i progestinici e gli estrogeni, da soli o in combinazione al fine di ottenere un arresto/rallentamento della progressione della malattia o un consolidamento dei risultati della terapia chirurgica. Un approccio chirurgico alla malattia endometriosica è spesso una opzione quando la terapia medica non è efficace nel controllo della sintomatologia o quando l’estensione ad altri organi ne compromette la funzionalità. Lo scopo della chirurgia dell’endometriosi è la rimozione pressoché completa della malattia ed il ripristino, per quanto possibile, di una normale anatomia. Pur essendo una patologia benigna, l’endometriosi si comporta come una patologia oncologica con estesa alterazione dell’anatomia e profonda infiltrazione degli organi e delle strutture nervose che ne sono interessate tanto che “alcuni di questi casi sembrano essere la chirurgia più difficile nel corpo umano, impegnando al massimo fisicamente e mentalmente il chirurgo”.
Nell’uso clinico corrente le terapie di scelta dovrebbero essere a base i soli progestinici in forma di terapie orali, impianti sottocutanei o dispositivi intrauterini. La terapia orale a base di soli progestinici, inducendo un ambiente ipoestroestrogenico, riduce significativamente lo sviluppo del tessuto endometriosico con una significativa riduzione della sintomatologia dolorosa ma non è scevra di effetti sfavorevoli significativi. In primis impatta negativamente sulla qualità di vita della paziente affetta da endometriosi, che è nella quasi totalità una donna giovane, poiché a fronte della parziale o totale remissione della sintomatologia dolorosa, la terapia progestinica induce la comparsa di una sintomatologia simil-menopausale. Questa si può manifestare con forme più o meno lievi di osteopenia/osteoporosi, depressione, sbalzi d’umore, caldane, riduzione del desiderio sessuale, secchezza vaginale, aumento di peso, ritenzione idrica ed ha quindi un significativo impatto sulla qualità di vita sociale e relazionale della paziente. Il metabolismo e l’eliminazione del farmaco avvengono prevalentemente a livello epatico e, quindi, l’utilizzo prolungato può indurre danni epatici più o meno marcati, problema che può essere ovviato in parte con l’utilizzo di dispositivi intrauterini a rilascio prolungato (IUD medicati) che non evitano però ulteriori effetti tossici sull’organismo. La terapia progestinica, soprattutto cronica, aumenta il rischio di tumore della mammella e, soprattutto, espone la paziente ad un significativo aumento del rischio di accidenti tromboembolici che la possono anche condurre all’exitus.
La terapia associata estro/progestinica, ovvero la pillola anticoncezionale, è da anni utilizzata nella terapia dell’endometriosi. Rispetto alla terapia con il solo progestinico induce una meno marcata riduzione dei livelli circolanti di estrogeni e, quindi, degli effetti sfavorevoli ad essa correlati, ma ha, di conseguenza, una minor efficacia della terapia con il solo progestinico. Il meccanismo d’azione è probabilmente sovrapponibile a quello del solo progestinico (ipoestrogenismo relativo con atrofia del tessuto endometriosico, blocco dell’ovulazione e del conseguente rilascio di fattori proliferativi, riduzione/abolizione del flusso mestruale) ma il controllo della sintomatologia è meno efficace e richiede spesso un utilizzo continuo (cioè senza sospensione e quindi senza permettere la mestruazione) per mantenere un adeguato controllo della malattia. Gli effetti positivi poi tendono a svanire dopo pochi mesi dalla sospensione della terapia. Anche gli estroprogestinici sono poi gravati dagli stessi effetti avversi della sola terapia progestinica.
Tenuto conto della correlazione tra l’ambiente ormonale e lo sviluppo della malattia una opzione terapeutica da prendere in considerazione potrebbe essere quella di azzerare la produzione ormonale così da azzerare gli stimoli proliferativi sul tessuto endometriosico. Questo risultato può essere ottenuto utilizzando gli analoghi del GnRH, ovvero dei farmaci di sintesi che provocano la soppressione della produzione di alcuni ormoni necessari allo sviluppo dei follicoli ovarici inducendo una menopausa artificiale. Il loro utilizzo cronico è impedito dal manifestarsi ancor più evidente della sintomatologia menopausale rispetto ad altre terapie ormonali con le pesanti ricadute sulla qualità di vita delle pazienti e con effetti ancor più evidenti soprattutto in termini di osteoporosi/osteopenia pur essendo quasi sempre efficaci nel controllo della sintomatologia dolorosa rendendoli inutilizzabili per una terapia che deve essere cronica.
Se consideriamo che il tessuto endometriosico è simile se non uguale a quello normalmente presente all’interno dell’utero e, come tali, questi tessuti rispondono alla stimolazione ormonale in maniere sovrapponibili, ci rendiamo subito conto che una terapia ormonale efficace contro la malattia provocherà, inevitabilmente, una risposta funzionalmente sfavorevole quantomeno a livello uterino. Attualmente non sono per questo disponibili in commercio terapie ormonali per l’endometriosi che consentano alla paziente che lo desideri di ricercare una gravidanza rendendo questa opzione terapeutica fruibile ad una grande percentuale di queste.
Posto che spesso l’indicazione alla chirurgia è il ripristino o un miglioramento della fertilità in una donna giovane l’approccio chirurgico deve consentire una completa visione degli organi da approcciare, ridurre al minimo il rischio di generare a sua volta aderenze e, non ultima, una resa estetica accettabile. La risposta a queste esigenze apparentemente contraddittorie è l’utilizzo della tecnica laparoscopica che è considerata il “Gold standard” già da tempo.
Il chirurgo che si occupa di endometriosi può dover eseguire una chirurgia limitata agli organi riproduttivi femminili o dover eseguire una chirurgia che si estende all’intestino, all’apparato urinario ed alla parete addominale, ciò che richiede un approccio multidisciplinare con il coinvolgimento di vari specialisti (Ginecologo, Chirurgo Generale, Urologo, Chirurgo Plastico) o un training esteso ad altre discipline con la formazione di un “Chirurgo Pelvico” in grado di affrontare tutte queste chirurgie allo stesso tempo.
La terapia chirurgica delle formazioni cistiche endometriosiche a carico dell’ovaio è stata negli anni passati diffusamente praticata, in parte perché, con i mezzi diagnostici di qualche anno fa, l’ecografia permetteva di individuare solo queste manifestazioni della patologia, ma anche perché considerato un intervento relativamente “facile” alla portata anche di un chirurgo in formazione, ed anche perché si riteneva che potesse grandemente giovare alla paziente. Questi assunti sono stati poi parzialmente smentiti negli anni da numerosi studi scientifici.
Le cisti ovariche endometriosiche sono spesso associate ad endometriosi estesa e quindi, se la valutazione pre-intervento non è accurata, possono richiedere chirurgie complesse ed importanti, non sempre alla portata di tutti i chirurghi, soprattutto in assenza di uno specifico consenso informato. Inoltre l’esperienza del chirurgo è direttamente correlata alla qualità del risultato, soprattutto in termini di preservazione della fertilità.
Negli anni si è dimostrato inoltre che, a prescindere dall’esperienza dell’operatore, la chirurgia ovarica per endometriosi, danneggia irreversibilmente il tessuto ovarico funzionale, soprattutto se ripetuta o su entrambe le ovaie e riduce anche la risposta ad eventuali protocolli di fecondazione assistita, risposta già compromessa in parte dalla presenza stessa della patologia endometriosica. L’asportazione delle cisti endometriosiche può essere comunque necessaria anche in pazienti che si devono sottoporre a fecondazione assistita se la presenza di cisti endometriosiche rende impossibile il prelievo ovocitario.
Se l’indicazione alla procedura chirurgica è la sintomatologia dolorosa, invece, la rimozione laparoscopica delle formazioni cistiche endometriosiche si è dimostrata essere una soluzione efficace.
Senza considerare le localizzazioni insolite extra addominali, che rappresentano segnalazioni episodiche e statisticamente non significative, l’endometriosi può interessare qualsiasi organo addominale, compresa la parete addominale stessa ed il diaframma. Nel 15% delle pazienti con endometriosi è presente un interessamento di vari segmenti dell’intestino con una spiccata prevalenza del retto-sigma (50% delle localizzazioni intestinali) ed appendice (16%), nel 4% dei casi a carico di uretere e vescica. La chirurgia trova la sua indicazione nelle pazienti che non rispondono a o non possono assumere terapia ormonale ed ovviamente nelle pazienti nelle quali la malattia stia compromettendo irreversibilmente la funzionalità degli organi interessati. Nel caso dell’endometriosi intestinale possiamo osservare episodi occlusivi o sub-occlusivi, nel caso dell’endometriosi delle vie urinarie compromissione parziale o totale della funzionalità renale, nel caso di infiltrazione del diaframma periodici pneumotoraci correlati al flusso (catameniali).
La chirurgia dell’endometriosi infiltrante, ovvero quando l’infiltrazione della malattia supera i 5mm, richiede un approccio simile a quello della terapia chirurgica delle malattie oncologiche in stadi avanzati, quindi estremamente complessa, ma viene eseguita su pazienti giovani che non possono dover convivere con sequele di lungo termine. E’ quindi necessaria una esperienza specifica, spesso il coinvolgimento di più specialisti, ed un approccio quanto più rispettoso possibile delle strutture nervose (nerve sparing) per prevenire danni neurologici permanenti.
La letteratura è concorde con la necessità di una asportazione radicale della malattia perché la paziente possa trarre il massimo giovamento dal trattamento chirurgico, meno sui metodi per raggiungere questo obiettivo. In ogni caso può essere necessario, dopo aver isolato correttamente i numerosi plessi nervosi che sovraintendono al corretto funzionamento dell’apparato gastrointestinale ed urinario, procedere anche alla resezione di segmenti di intestino o di uretere e/o vescica, se compromessi dalla malattia, ed alla ricostruzione accurata delle strutture. Ovviamente i risultati sono strettamente correlati all’esperienza dell’operatore ma, nel caso di operatore esperto, le recidive a cinque anni sono pressoché nulle.
Le lesioni endometriosiche della parete addominale sono di solito localizzate nelle sedi di precedenti cicatrici chirurgiche ma si possono presentare anche in assenza di precedenti chirurgie a carico dell’ombelico e del canale inguinale. Il trattamento è la rimozione con eventuale ricostruzione anche protesica della parete ed è indicato sia per la sintomatologia algica associata sia per il rischio di trasformazione maligna.
L’endometriosi resta una malattia ancora sottovalutata: colpisce il 6-10% della popolazione femminile, può causare infertilità e dolori importanti che hanno un impatto significativo sulla qualità della vita, l'equilibrio psicologico della donna e sul costo sociale come evidenziano i risultati di un nutrito numero di ricerche nel campo delle scienze mediche e sociali.
Certamente l’endometriosi è una malattia “democratica” che colpisce tutte le razze e i ceti, può essere cronica e progressiva in una sottopopolazione di donne, ma ad oggi non è ancora chiaro quali pazienti siano più a rischio di forme avanzanti. La gravità dei sintomi e la probabilità di una corretta diagnosi aumenta con l’età, con un picco d’incidenza intorno ai quaranta anni. Una volta instaurata, l’endometriosi può progredire anche dopo la menopausa; sono documentati anche casi di insorgenza prepuberale.
La vita delle donne colpite da endometriosi può essere un vero e proprio calvario: vita a pezzi e costi sociali altissimi. Gli impatti anche dal punto di vista della qualità della vita e del benessere psicologico, come si evince da molte ricerche internazionali dell’ultimo decennio, sono rilevanti.
Il dolore pelvico persistente e gli altri sintomi associati determinano infatti gravi sofferenze fisiche e psichiche che compromettono severamente la possibilità di una normale vita lavorativa, affettiva e di relazione. Questo stato di forte disagio fisico e psichico è aggravato anche dagli effetti collaterali dei trattamenti medici e chirurgici che sono tanto necessari quanto frequenti.
Non a caso molti studi si stanno focalizzando proprio sul capire quanto questa malattia alteri la vita delle donne nella quotidianità e nel privato, ad esempio una delle condizioni spesso più compromesse riguarda proprio la sfera sessuale.
Non è episodico che all’endometriosi si associno stati depressivi. Questa malattia silente e subdola si traduce per le donne nell’impossibilità di comunicare e condividere la propria condizione con familiari, contesto lavorativo, e molto spesso anche con i propri medici di base o ginecologi.
Sovente anche da parte del medico generico c’è la tendenza e il rischio a minimizzare fino a banalizzarlo il malessere che la donna ammalata denuncia.
Anche l’aspetto clinico diagnostico produce effetti pesanti per la donna che spesso prima di arrivare a capo del problema deve sottoporsi a numerose e invasive visite specialistiche.
Il senso di pudore viene messo a dura prova, ma la cosa più traumatica per la paziente è il confronto che si genera con una realtà fatta ancora di pregiudizi e poca conoscenza della patologia. La malattia, inoltre può alterare l’immagine corporea delle donne, frustrarne i bisogni, causare una perdita dell’autostima e aumentare l’intensità dei loro conflitti psichici, determinando sensi di colpa e isolamento sociale. La perdita dell’autostima sembrerebbe, in alcuni studi, il fattore che maggiormente influenza l’insorgere della depressione.
Presentandosi la malattia in età giovanile, si ripercuote su tre aspetti importanti della qualità di vita: il lavoro, la sessualità e il desiderio di prole spesso insoddisfatto.